Lo studio riguarda le novità introdotte nel 2015 con la riforma dell’esecuzione forzata, attraverso una attenta analisi delle medesime al fine di una riflessione sotto il profilo della coerenza delle scelte del legislatore rispetto alla ratio ispiratrice ( Riv. Dir. Proc. 2016
1. – Nella calda estate del 2015, come è ormai noto, si è assistito all’ennesima riforma dell’esecuzione forzata. Dopo soli 7 mesi dal “doppio” intervento nella materia, attuato con il d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con – molte – modificazione nella l. 10 novembre 2014, n. 162, è sopraggiunto il d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito – nuovamente con molte modificazioni – in l. 6 agosto 2015, n. 132.

L’indefessa aspirazione del legislatore all’efficienza delle procedure esecutive ha interessato in questa ultima (?) occasione sia taluni principi relativi all’attuazione della garanzia patrimoniale sia la c.d. esecuzione indiretta sia la disciplina dell’espropriazione.

Qualche mese è ormai trascorso da questi ultimi interventi; ed è quindi troppo tardi per illustrare le novità legislative con l’intento di aggiornare il lettore; ma è anche troppo presto per azzardare un giudizio, che peccherebbe di superficialità, sulle recenti modifiche.

Si può però tentare di offrire un percorso ragionato su tali novità, per trarne qualche primo spunto di riflessione anche sotto il profilo della coerenza delle scelte del legislatore rispetto alla ratio ispiratrice: l’efficienza e la ragionevole durata delle procedure di espropriazione.

Prima di addentrarci nell’esame di tali novità, occorre tuttavia segnalare che nel momento in cui si scrive è all’esame del Parlamento il d.d.l. n. 2953 “Delega al governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile”(1), che, se approvato, porterà altre importanti modifiche in materia esecutiva. Anche di ciò si cercherà di tenere conto nel corso di questo lavoro.

Per comodità di esposizione ci pare opportuno suddividere le novità introdotte dal d.l. n. 83/2015 e dalla l. n. 132/2015, prescindendo sia dall’ordine cronologico degli interventi, sia dall’ordine che gli articoli modificati dalla riforma hanno nel codice, ma seguendo un diverso ordine logico; il tutto senza pretesa di completezza, data l’ampiezza di questa nuova normativa.

In primo luogo, si esamineranno gli interventi che suonano come una evidente correzione rispetto a quanto disposto solo pochi mesi prima, con le riforme del 2014. Sia il d.l. n. 83/2015 sia la l. n. 132/2015, per taluni profili, sembrano infatti una sorta di lex poenitendi rispetto a quanto statuito solo alla fine del 2014: come ha affermato autorevole dottrina, con questi interventi il legislatore ha messo qualche “toppa” qua è là(2).

In secondo luogo, passeremo ad analizzare le “vere” novità portate da queste ultime riforme, dapprima segnalando alcuni interventi di grande rilievo, che interessano non solo il sistema esecutivo, ma più in generale il principio di attuazione della responsabilità patrimoniale; in seguito, daremo conto delle novità che invece incidono sulla disciplina dell’espropriazione, in parte rimodellata.

2. – Iniziamo dunque a esaminare gli interventi correttivi o integrativi delle novità introdotte con le riforme del 2014.

Tra questi, spiccano quelli in tema di ricerca telematica dei beni da pignorare(3).

Innanzitutto, con l’aggiunta di un periodo al 1° comma dell’art. 492 bis, si è chiarito che il creditore – non più procedente(4) –, prima di proporre al presidente del tribunale (o al delegato) l’istanza per l’autorizzazione alle ricerche telematiche, deve aver già notificato l’atto di precetto al debitore, salva l’ipotesi in cui vi sia pericolo nel ritardo. Per tale eventualità, con la l. n. 132/2015, si è specificato che “il precetto è consegnato o trasmesso all’ufficiale giudiziario prima che si proceda al pignoramento”.

In secondo luogo, si è operata qualche correzione di rilievo riguardo alle banche dati consultabili dall’ufficiale giudiziario: non è più possibile che la ricerca si svolga su quelle cui hanno accesso le pubbliche amministrazioni, né sul Pubblico Registro Automobilistico.

Sul punto tuttavia rilevano soprattutto le modifiche apportate con la riforma agli artt. 155 quater e 155 quinques disp. att. c.p.c. Si tratta però di norme di un tecnicismo esasperato, delle quali è qui impossibile riferire compiutamente. Ci limitiamo pertanto a evidenziarne le ricadute concrete.

Grazie alla modifica della prima disposizione, da un lato, è venuta meno la necessità dell’emanazione del decreto ministeriale, che avrebbe dovuto regolare l’accesso alle banche dati(5), e la cui mancata emanazione era considerata impeditiva anche per lo svolgimento delle ricerche per tramite dei gestori(6); dall’altro lato, vengono messi a disposizione degli ufficiali giudiziari i sistemi di accesso già in uso presso la pubblica amministrazione (secondo quanto ivi disposto), richiedendosi all’uopo la stipulazione di una convenzione, “sentito il Garante per la protezione dei dati personali”.

Le modifiche introdotte nell’art. 155 quinques disp. att. c.p.c., invece, permettono al creditore, previamente autorizzato, l’accesso diretto alle banche dati, anche se ancora non “sono funzionanti” le strutture tecnologiche necessarie a consentire lo svolgimento delle ricerche da parte dell’Ufficiale giudiziario(7). Finché tale modalità di accesso non sarà attiva, i creditori si possono quindi rivolgere direttamente ai gestori delle “banche dati comprese nell’anagrafe tributaria ivi incluso l’archivio dei rapporti finanziari, nonché a quelle degli enti previdenziali, sino all’inserimento di ognuna di esse nell’elenco di cui all’articolo 155 quater, primo comma”, vale a dire: fino all’inserimento, ad opera del Ministero della giustizia, nell’elenco delle banche dati per le quali è operativo l’accesso da parte dell’ufficiale giudiziario.

In definitiva, dunque, la situazione si è “sbloccata” quanto alle ricerche per tramite gestori, anche se siamo lungi dalla piena operatività del sistema(8).

Ancora rimangono dubbi di non poco momento riguardo alla disciplina dell’istituto. Nemmeno le ultime modifiche, infatti, hanno fatto luce su un problema applicativo di grande rilievo: la necessità per il creditore di rispettare il termine previsto nell’art. 481 c.p.c. a norma del quale “Il precetto diventa inefficace, se nel termine di novanta giorni dalla sua notificazione non è iniziata l’esecuzione”.

Per risolvere questo problema la dottrina prevalente propone di considerare l’istanza al presidente del tribunale, volta ad ottenere l’autorizzazione alle ricerche, comprensiva e/o sostitutiva della domanda di pignoramento(9); e all’uopo attribuisce rilievo dirimente, sia alle modalità del successivo svolgersi della procedura, che – quando sarà a regime – prevede il c.d. pignoramento d’ufficio da parte dell’ufficiale giudiziario, senza necessità di un’ulteriore istanza da parte del creditore (art. 492, 6° e 7° comma), sia all’art. 155 ter c.p.c. il quale, disciplinando l’ipotesi in cui l’ufficiale giudiziario deve rivolgersi al creditore per chiedergli di scegliere – entro 10 giorni – quali tra i beni e/o i crediti rinvenuti nelle banche dati voglia sottoporre a pignoramento, precisa che “in mancanza la richiesta di pignoramento perde efficacia”.

La tesi, pur apprezzabile, soprattutto per l’intento che si prefigge, tuttavia non mi convince. Il presidente del tribunale non è l’organo cui è diretta la “domanda esecutiva”(10); svolge in quel frangente, secondo la tesi maggioritaria, un’attività di volontaria giurisdizione(11) e non esecutiva; e, inoltre, nel silenzio delle norme, non è dato supporre che egli debba “automaticamente” trasmettere la domanda del creditore accompagnata dall’autorizzazione all’ufficiale giudiziario. Mi pare dunque più coerente con il sistema immaginare che la domanda esecutiva del creditore sia rivolta all’ufficiale giudiziario al momento della consegna dell’autorizzazione alle ricerche(12). Se poi tale domanda esecutiva sia effettivamente in grado di sospendere il termine previsto nell’art. 481 c.p.c., è un quesito sul quale qui non possiamo intrattenerci, ma si tenga presente che anche su questo profilo vi sono notevoli dubbi, soprattutto per quanto riguarda il pignoramento mobiliare(13).

In ogni caso, sia la ricostruzione proposta dalla dottrina maggioritaria, sia quella da me accolta non sembrano attagliarsi all’ipotesi in cui il creditore si rivolga direttamente al gestore delle banche dati, unica possibilità – peraltro – allo stato praticabile. In questo caso, non sussiste alcun automatismo tra la fase autorizzativa, quella della ricerca nelle banche dati e quella del pignoramento, che consenta di ipotizzare una richiesta di pignoramento anticipata e salvifica del termine ex art. 481 c.p.c.; e ciò, soprattutto, se si ritiene, come a me pare più ragionevole, che in questo caso l’espropriazione (successiva alle ricerche) si debba svolgere secondo il modello “tradizionale” e non secondo la disciplina dettata dall’art. 492 bis 3° e 5° comma, c.p.c.

3. – Con il d.l. n. 83/2015 si è inoltre attuata una “correzione di rotta” anche in materia di iscrizione a ruolo dell’espropriazione.

L’introduzione nel 2014 del principio per il quale spetta al creditore pignorante provvedere a tale incombenza(14), secondo quanto prevedono gli artt. 518, 521 bis, 543, e 557 c.p.c. in combinato disposto con l’art. 159 bis disp. att. c.p.c., aveva creato qualche problema, perché, fino a quando il pignorante non vi avesse provveduto, pur essendo la procedura già pendente, della medesima non si aveva, per così dire, “traccia” ufficiale. Ciò impediva di proporre ai terzi istanze o atti(15) relativi a quella procedura, creando anche problemi di applicazione pratica. Era accaduto, ad esempio, che le cancellerie rifiutassero di ricevere in custodia i beni cui fa riferimento l’art. 520, 1° comma, c.p.c., proprio perché la procedura non risultava ancora iscritta(16).

Per risolvere tali questioni, come si detto, il legislatore è nuovamente intervenuto sull’istituto dell’iscrizione a ruolo con il d.l. n. 83/2015, aggiungendo l’art. 159 ter alle disposizioni di attuazione del c.p.c.(17). Con ciò non si è solo data risposta ai problemi applicativi creati dal nuovo sistema, ma soprattutto si è colmata una lacuna che incideva sull’esercizio della tutela giurisdizionale di soggetti terzi interessati a partecipare alla procedura.

Ora possono provvedere all’iscrizione a ruolo tutti coloro i quali debbano depositare per primi “un atto o un’istanza”, ivi compreso l’ufficiale giudiziario. In tal caso l’iscrizione a ruolo spetta al cancelliere. Tra i soggetti interessanti rientra ovviamente anche il debitore, anche se, in realtà, mi pare che questi non abbia mai un effettivo interesse a porre in essere un atto che impedisce il prodursi dell’inefficacia del pignoramento.

Quando il terzo deposita la nota d’iscrizione a ruolo (“e una copia dell’atto di pignoramento”) l’espropriazione non si può tuttavia ancora considerare definitivamente incardinata. Occorre infatti, anche in questo caso, che “il creditore, nei termini di cui agli articoli 518, 521 bis, 543 e 557 del codice” provveda, “a pena di inefficacia del pignoramento, al deposito delle copie conformi degli atti previsti dalle predette disposizioni e si applica l’articolo 164 ter delle presenti disposizioni”. In sostanza, l’iscrizione a ruolo da parte di soggetti diversi dal pignorante permette a questi di proporre istanze e atti nella procedura ormai pendente, senza che si produca alcun effetto interruttivo sul decorso del termine per l’iscrizione a ruolo da parte del creditore, né che si eviti l’inefficacia del pignoramento: o il creditore pignorante provvede al deposito della documentazione indicata nell’art. 159 ter, ult. periodo, dis. att. c.p.c., oppure il pignoramento diviene inefficace.

4. – Un vero e proprio passo indietro, rispetto a quanto disposto con la l. 162/2014, è stato invece compiuto dalla l. n. 132/2015 a proposito del pignoramento di autoveicoli, motoveicoli e rimorchi.

La procedura speciale di pignoramento descritta dall’art. 521 bis c.p.c.(18) non ha probabilmente dato i frutti sperati (anche se erano in realtà trascorsi solo 6 mesi dall’entrata in vigore della norma), cosicché, intervenendo nuovamente su questa disciplina, il legislatore dell’agosto 2015 ha ritenuto opportuno renderla facoltativa(19). L’attuale incipit dell’art. 521 bis c.p.c. afferma infatti che “Oltre che con le forme previste dall’articolo 518, il pignoramento di autoveicoli, motoveicoli e rimorchi può essere eseguito anche mediante notificazione al debitore e successiva trascrizione”.

A tale modifica non ne è seguita alcuna in punto di competenza. Tuttora il 2° comma dell’art. 26 c.p.c. prevede che “Per l’esecuzione forzata su autoveicoli, motoveicoli e rimorchi è competente il giudice del luogo in cui il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede”. Ciò crea non pochi ostacoli: anche quando si scelga di procedere con le forme “dirette” ex art. 518 c.p.c. occorre rivolgersi all’ufficiale giudiziario che opera nel circondario del giudice competente, il quale è autorizzato a compiere il pignoramento solo entro tali limiti.

Si aggiungono inoltre altri piccoli ritocchi a questa particolare disciplina, come quello relativo all’individuazione dell’istituto vendite cui affidare l’autoveicolo in caso di consegna forzosa, che ora può essere il “più vicino” al luogo del rinvenimento. Ma quello che più rileva è che la l. n. 132/2015 ha aggiunto all’articolo un nuovo comma 7°, nel quale si stabilisce che, in deroga a quanto prevede l’art. 497 c.p.c., “l’istanza di assegnazione o l’istanza di vendita deve essere depositata entro quarantacinque giorni dal deposito da parte del creditore della nota di iscrizione a norma del presente articolo ovvero dal deposito da parte di quest’ultimo delle copie conformi degli atti, a norma dell’articolo 159 ter delle disposizioni per l’attuazione del presente codice”. Il senso della novità è chiaro: con la normativa in esame si può pignorare un autoveicolo (ecc.) senza averne previamente acquisito il possesso, ma ciò è indispensabile per poter liquidare il bene(20). Si subordina quindi l’iscrizione a ruolo della procedura all’avvenuta consegna del veicolo (5° comma, art. 521 bis c.p.c.) e, a catena, si subordina l’istanza di vendita all’avvenuta iscrizione a ruolo.

La stessa logica assiste anche la previsione relativa all’ipotesi in cui all’iscrizione a ruolo abbia provveduto, ai sensi dell’art. 159 ter disp. att. c.p.c., un soggetto terzo. In tal caso il termine dell’art. 497 c.p.c. decorre da quando il pignorante, che rimane dominus delle sorti della procedura fino a che essa non sia incardinata(21), deposita le “copie conformi degli atti, a norma dell’articolo 159 ter” disp. att. c.p.c.

5. – Passiamo ora ad esaminare le modifiche introdotte dalle riforme del 2015 che a mio avviso sono maggiormente innovative. Si tratta di due interventi che assumono grande rilievo a livello di sistema.

Quanto al primo, il d.l. n. 83/2015 ha inserito nel tessuto del codice civile una nuova Sezione 1 bis nel Libro VI, Titolo IV, Capo II, del codice civile, denominata “Dell’espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito”, nella quale fa il suo esordio l’art. 2929 bis c.c. rubricato “Espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito”. Nella norma si prevede che il creditore pregiudicato da un atto del debitore di costituzione di vincolo di indisponibilità o di alienazione, su beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri, “compiuto a titolo gratuito successivamente al sorgere del credito, può procedere, munito di titolo esecutivo, a esecuzione forzata, ancorché non abbia preventivamente ottenuto sentenza dichiarativa di inefficacia, se trascrive il pignoramento nel termine di un anno dalla data in cui l’atto è stato trascritto”. Come ha evidenziato di recente la dottrina, la norma consente di “bypassare”(22) l’azione revocatoria ordinaria, nei limiti dalla stessa previsti, aggredendo i beni oggetto dell’atto pregiudizievole, come se ancora fossero parte della garanzia patrimoniale del debitore ex art. 2740 c.p.c. Di tale estensione di garanzia si può inoltre giovare il “creditore anteriore che, entro un anno dalla trascrizione dell’atto pregiudizievole, interviene nell’esecuzione da altri promossa”.

Come avviene per l’espropriazione che segue la revocatoria ordinaria, “quando il pregiudizio deriva da un atto di alienazione”, il creditore deve promuovere l’“azione esecutiva nelle forme dell’espropriazione contro il terzo proprietario”. In tal caso, tuttavia, la tutela del debitore esecutato e/o del terzo è demandata alle opposizioni all’esecuzione. È solo in quella sede che questi soggetti, nonché “gli interessati” oltre a contestare, per i consueti motivi, il diritto del creditore di procedere in esecuzione forzata, potranno altresì contestare “la sussistenza dei presupposti di cui al primo comma, nonché la conoscenza da parte del debitore del pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore”.

Questo nuovo istituto desta, obbiettivamente, numerose perplessità. In questa sede ci limitiamo a rilevare che il legislatore, pare avere superato il principio secondo il quale la tutela costitutiva esige la pronuncia del giudice: il diritto potestativo del creditore produce effetti sul piano dell’esecuzione senza necessità di una previa sentenza costitutiva di revoca. In secondo luogo, va rilevato (e spesso accade negli ultimi anni anche grazie alle proliferazione dei titoli esecutivi) come il legislatore releghi nell’opposizione all’esecuzione la tutela del debitore e del terzo proprietario. Ma ciò non costituisce a mio avviso un pieno recupero di quella tutela obliterata ex ante in virtù della norma in esame: oltre i dubbi che in tal caso possono sorgere riguardo alla ripartizione dell’onere della prova del pregiudizio arrecato dall’atto, si deve altresì ricordare, da un lato, che, nel corso di quel giudizio, la sospensione dell’esecuzione è disposta solo per “gravi motivi”(23), dall’altro lato, che ancora di recente la Cassazione ha ribadito come il principio della stabilità della vendita forzata prevalga sulle ragioni dell’esecutato, anche se questi abbia proposto l’opposizione ex art. 615 c.p.c. prima del perfezionamento della vendita(24). Mi pare dunque che, soprattutto quando l’azione esecutiva ex art. 2929 bis c.c. si rivolge contro il terzo proprietario, si verifichi un deficit di tutela certo non commendevole.

6. – Un’altra modifica introdotta nel 2015, che potrebbe essere in grado di spostare gli equilibri finora esistenti in merito ai mezzi di tutela previsti dall’ordinamento per attuare il precetto contenuto nell’art. 2740 c.c. è quella relativa alla c.d. esecuzione indiretta(25).

La l. n. 132/2015 ha infatti introdotto nel c.p.c. un nuovo Titolo IV bis nel Libro III del codice di rito, denominato “Delle misure di coercizione indiretta”, nel quale ha ricollocato l’art. 614 bis c.p.c., modificandone la rubrica (ora: “Misure di coercizione indiretta”) e il testo.

La portata di questa tutela è stata ampliata(26): si prevede infatti che “con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento”.

Venuto meno, sia nel testo dell’articolo, sia nella rubrica, qualsiasi riferimento agli obblighi di fare infungibili o di non fare, la “nuova” misura coercitiva può, ora essere concessa in via accessoria rispetto a tutte le condanne all’adempimento “di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro”, salvo che ciò appaia manifestamente iniquo: può dunque essere concessa sia quando la domanda principale di condanna riguarda la consegna o il rilascio, sia quando con la medesima si chiede l’adempimento di un qualsiasi obbligo di fare o di non fare (sia esso fungibile o infungibile).

Tra i molti profili d’interesse che la norma presenta, il più nuovo è probabilmente quello relativo al rapporto tra il titolo esecutivo, che si forma sulla domanda principale, e quello che ha ad oggetto la misura coercitiva, quando anche il primo – per fungibilità dell’obbligo – possa essere posto in esecuzione “in via diretta”.

A ben vedere, infatti, l’abolizione, con la riforma dell’agosto 2015 della regola che circoscriveva l’ammissibilità della misura coercitiva alle sole obbligazioni insuscettibili di esecuzione in via forzata (ammesso qui per ipotesi che tale limitazione vi fosse veramente), implica, in via consequenziale, anche il venir meno del principio dell’alternatività tra l’azione esecutiva diretta e quella indiretta(27). E ciò, oltre a creare qualche dubbio sul coordinamento tra le procedure esecutive che ne possono seguire, impone un’attenta riflessione sul criterio di proporzionalità della tutela concessa al creditore; una riflessione che, sia chiaro, non deve peraltro indurre a concludere che l’esecuzione cui può dar luogo la misura coercitiva sia alternativa all’esecuzione fondata sulla condanna principale: l’oggetto dei provvedimenti (titoli esecutivi) è infatti differente, così come è differente l’esecuzione che in forza dell’uno o dell’altro titolo si intraprende, benché il risultato ultimo che si persegue sia il medesimo.

Del resto siamo di fronte a una linea evolutiva inarrestabile: si segnala infatti che il progetto di riforma – all’esame del Parlamento nel momento in cui si scrive – prevede un ulteriore ampliamento dell’ambito di applicazione dell’art. 614 bis c.p.c., rendendo possibile l’utilizzo della coercizione indiretta anche contro il debitore di somme di denaro inadempiente(28).

7. – Passiamo ora ad esaminare, sia pure in sintesi, altre novità di rilievo introdotte con il d.l. n. 83/2015 o con la l. di conversione n. 132/2015 che, diversamente da quelle esaminate in apertura, non si possono considerare a mio avviso come “correzioni” o mere integrazioni – sia pure di rilievo – di quanto disposto nel 2014 con il d.l. n. 132/2014 e con la l. di conversione n. 162/2014.

La Relazione che ha accompagnato il d.l. 83/2015 fa espresso riferimento alla “straordinaria necessità e l’urgenza” del nuovo intervento con particolare riguardo a due aspetti: innanzitutto, quello “di migliorare l’efficienza delle procedure di esecuzione forzata” attraverso un ammodernamento delle forme di pubblicità, l’istituzione di un portale delle vendite pubbliche, la modifica dei criteri di aggiudicazione dei beni, una significativa riduzione dei termini stabiliti per il compimento di adempimenti procedurali”; in secondo luogo, quello di introdurre “misure a sostegno del debitore in particolare con riferimento al pignoramento delle pensioni e delle somme depositate in conto corrente”.

Quanto alle prime necessità evidenziate dalla Relazione, va innanzi tutto segnalata la modifica dell’art. 490 c.p.c.: viene abrogata l’obsoleta affissione degli avvisi all’albo dell’Ufficio giudiziario competente, e al suo posto viene istituto il “Portale delle vendite pubbliche”, che deve essere inserito nel sito del Ministero della giustizia, e nel quale si deve dare pubblicità, non solo alle vendite, ma a tutti gli atti esecutivi per i quali la legge “dispone … sia data pubblica notizia” (art. 490, 1° comma). Ferma la necessità di pubblicità anche su “appositi siti internet”, quando la vendita abbia ad oggetto beni mobili registrati di valore superiore a 25.000,00 euro o beni immobili (2° comma art. 490 c.p.c.), si prevede inoltre che “anche” su istanza del creditore procedente o dei creditori intervenuti muniti di titolo esecutivo – e quindi anche per iniziativa del g.e. – l’avviso sia inserito almeno 45 giorni prima della presentazione delle offerte(29) “una o più volte sui quotidiani di informazione locali aventi maggiore diffusione nella zona interessata o, quando opportuno, sui quotidiani di informazione nazionali o che sia divulgato con le forme della pubblicità commerciale” o su pubblicazioni analoghe(30).

Il portale delle vendite pubbliche attualmente non è ancora funzionante, ma si spera che presto lo sia, perché in effetti questo tipo di pubblicità potrà dare maggior visibilità alle vendite esecutive, migliorandone – si spera – la fruttuosità. Sul punto l’art. 161 quater disp. att. c.p.c. dispone che la pubblicazione “è effettuata a cura del professionista delegato per le operazioni di vendita o del commissionario o, in mancanza, del creditore pignorante o del creditore intervenuto munito di titolo esecutivo ed in conformità alle specifiche tecniche, che possono determinare anche i dati e i documenti da inserire”. Da tale disposizione si deduce altresì che questa forma di pubblicità costerà 100,00 euro ad avviso, se relativa a procedure espropriative di beni mobili registrati o di beni immobili(31).

Opportuna, allo stato, appare anche la previsione del 3° comma dell’art. 490 c.p.c. Poiché il livello d’informatizzazione nel nostro Paese non è ancora molto elevato, la pubblicità cartacea può raggiungere un maggior numero di soggetti, o comunque dei soggetti diversi.

Al riguardo si segnala altresì la modifica del 7° comma dell’art. 530 c.p.c. al quale è stato aggiunto un periodo. Anche nella vendita mobiliare, comunque essa si debba svolgere(32), oltre alla pubblicità negli appositi siti internet – che può essere disposta su iniziativa del giudice, ma anche dei creditori – si impone ora “che sia sempre effettuata la pubblicità prevista dall’articolo 490, primo comma, nel rispetto del termine” di dieci giorni prima della scadenza del termine per la presentazione delle offerte o dell’(improbabile) incanto.

Analoga pubblicità è necessaria per la vendita immobiliare. Anche se sul punto l’art. 569 c.p.c. tace, rinviano all’art. 490 c.p.c. sia l’art. 570 c.p.c. per la vendita senza incanto, sia l’art. 576, 1° comma, n. 4 per la vendita con incanto.

La misura del rilievo che il legislatore ha voluto conferire a questi adempimenti sta nell’art. 631 bis c.p.c., introdotto con d.l. n. 83/2015 e poi modificato con l. n. 132/2015: se la pubblicità sul portale pubblico non viene effettuata (o, meglio, non verrà effettuata) “per causa imputabile al creditore pignorante o al creditore intervenuto munito di titolo esecutivo”(33), il giudice dichiara l’estinzione del processo esecutivo.

Il mancato adempimento di quanto occorre per porre in essere la pubblicità “obbligatoria”, viene dunque equiparato dal legislatore al mancato compimento di un atto d’impulso processuale: se i creditori non provvedono, o se il delegato o il commissionario (ex art. 161 quater disp. att. c.p.c.) non provvedono ma per causa imputabile ai creditori titolati nel caso in cui tale incombenza spetti ai medesimi, la procedura non va oltre.

8. – Il secondo aspetto cui la Relazione fa riferimento è quello che riguarda “la modifica dei criteri di aggiudicazione dei beni”. Con il d.l. n. 83/2015 si introducono alcune novità di grande rilievo, per quanto riguarda sia la liquidazione degli immobili sia quella dei beni mobili.

Quanto alle vendite immobiliari, in primo luogo, va rilevato che ora il “prezzo base” per la vendita dei beni immobili (così art. 569, 4° comma, c.p.c.) è determinato, in modo differente rispetto a quanto avveniva in precedenza(34). Si sono abbandonati gli anacronistici criteri di valutazione basati sulla rendita dell’immobile, ai quali peraltro il giudice poteva già derogare quando, in applicazione dei medesimi, si perveniva ad un valore di stima “manifestamente inadeguato”(35); e ora il combinato disposto del nuovo art. 568 c.p.c. e dell’art. 173 bis disp. att. c.p.c., anch’esso modificato con il d.l. n. 83/2105, consente di fissare il prezzo base in modo senza dubbio più preciso e (si pensa) corrispondente all’effettivo valore del bene. L’esperto, oltre a indicare il valore di mercato dell’immobile, è tenuto a esporre “analiticamente gli adeguamenti e le correzioni della stima, ivi compresa la riduzione del valore di mercato praticata per l’assenza della garanzia per vizi del bene venduto” e a precisare se vi sono oneri di regolarizzazione urbanistica, lo stato d’uso e di manutenzione dell’immobile, lo stato di possesso, “i vincoli e gli oneri giuridici non eliminabili nel corso del procedimento esecutivo”, nonché le eventuali spese condominiali insolute.

Il valore di stima tiene dunque conto sia del valore specifico dell’immobile sia del contesto nel quale il medesimo viene venduto, e in particolare degli handicap che tuttora differenziano la vendita forzata da quella di diritto privato(36).

Per regola generale le vendite immobiliari dovranno sempre essere delegate al professionista. Così dispone il 1° comma del riformato art. 591 bis, c.p.c. A tale regola si può tuttavia far eccezione quando il giudice, “sentiti i creditori, ravvisi l’esigenza di procedere direttamente alle operazioni di vendita a tutela degli interessi delle parti” (2° comma, art. 591 bis c.p.c.).

Ciò che più spicca, in relazione alla vendita delegata, è la nuova disposizione inserita nell’ultimo periodo dell’art. 591 ter c.p.c., dove si prevede che “contro il provvedimento del giudice è ammesso reclamo ai sensi dell’art. 669 terdecies” c.p.c. Dal confronto con la norma precedentemente in vigore emerge ictu oculi che il reclamo cautelare ha preso il posto dell’opposizione agli atti esecutivi. La natura cautelare del rimedio ora indicato, di per sé, non consente tuttavia di affermarne l’idoneità a sostituire la funzione svolta dall’opposizione agli atti esecutivi, né a stabilizzare la decisione del giudice quanto alla legittimità dell’atto compiuto dal professionista. Al riguardo, per risolvere tale inconveniente, si possono prospettare due diverse interpretazioni: da un lato, si può pensare che il legislatore abbia fatto riferimento solo alla struttura del reclamo cautelare, “cameralizzando” il procedimento, senza mutare la funzione cognitiva che in quel frangente il giudice è chiamato a svolgere(37); dall’altro, si può invece tuttora ritenere che il reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. abbia ad oggetto solo la pronuncia sulla richiesta di sospensione e che il merito della questione, pur nel silenzio della norma, debba essere risolto tramite di un’opposizione agli atti(38). A questa incertezza interpretativa si somma poi quella riguardo alla ricorribilità in cassazione contro il provvedimento che decide il reclamo(39).

Un’altra importante novità è contenuta nel 2° comma dell’art. 571 c.p.c.: è efficace l’offerta inferiore al prezzo di stima del bene. Essa infatti è inammissibile solo quando “è inferiore di oltre un quarto al prezzo stabilito nell’ordinanza”, anche se solo quella pari o superiore a tale valore è, come afferma l’art. 572, 2° comma, c.p.c., “senz’altro accolta” dal giudice(40). Diversamente, si prospettano due possibilità: se vi sono altri offerenti, il giudice indice la gara tra i medesimi; se invece non ve ne sono o questi, pur presenti, non aderiscono alla gara, egli può scegliere di “far luogo alla vendita quando ritiene che non vi sia seria possibilità di conseguire un prezzo superiore con una nuova vendita e non sono state presentate istanze di assegnazione ai sensi dell’articolo 588” (art. 572 c.p.c.). E ciò vale non solo per il primo esperimento di vendita, ma anche per quelli successivi, che avranno luogo con un prezzo base ribassato fino al limite massimo di un quarto rispetto al precedente esperimento (art. 591 c.p.c.).

9. – Un’altra possibilità non prevista prima della riforma del giugno 2015 e introdotta con il d.l. n. 83/2015, è che “il versamento del prezzo abbia luogo ratealmente”. Sul punto deve provvedere il giudice con l’ordinanza di vendita quando ricorrono giustificati motivi. In tal caso il giudice può disporre anche l’immissione nel possesso dell’aggiudicatario, che ne faccia richiesta(41). Perché ciò sia possibile tuttavia è necessario che sia prestata “una fideiussione, autonoma, irrevocabile e a prima richiesta, rilasciata da banche, società assicuratrici o intermediari finanziari … per un importo pari ad almeno il trenta per cento del prezzo di vendita”, al fine di assicurare la procedura dal rischio dell’inadempimento da parte dell’aggiudicatario “possessore”, secondo quanto dispone l’art. 587 c.p.c., nonché per garantire dall’eventuale risarcimento dei danni arrecati dal medesimo all’immobile(42).

Benché si tratti di una novità interessante, la disciplina dell’istituto risulta tuttavia complessa e non priva di una eccessiva severità: quanto al primo profilo, non è chiaro chi sia legittimato a riscuotere tale fideiussione; quanto al secondo, basti pensare che l’aggiudicatario decade se non ha versato anche una “sola rata entro dieci giorni dalla scadenza del termine”, e che in tal caso il giudice dispone, oltre alla liberazione dell’immobile, anche “la perdita a titolo di multa delle rate già versate” e la perdita della cauzione(43).

Non nascondo inoltre un certo scetticismo di fondo nei confronti di questo nuovo istituto: mi domando infatti chi, non potendo pagare subito interamente il prezzo dell’immobile, possa però provvedervi entro dodici mesi con “comode rate” e, in più, sobbarcandosi i costi – non indifferenti – di una fideiussione bancaria (o di enti assimilati). Né si può trascurare il riflesso negativo che l’istituto produce sulla durata della procedura.

Dunque, se l’intento del legislatore era quello di aprire il mercato degli immobili a una platea più ampia di potenziali acquirenti, mi pare che questa norma non sia utile allo scopo. Sarebbe stato sicuramente più opportuno, a mio avviso, potenziare l’istituto previsto nel 2° comma dell’art. 585 c.p.c., magari allungando un poco i termini ivi previsti, per permettere agli istituti di credito che devono erogare il finanziamento di portare a termine per tempo le pratiche di autorizzazione, consentendo all’acquirente di accedere più agevolmente al contratto di mutuo(44).

Sempre con riguardo alle vendite immobiliari si segnala infine che il d.d.l. n. 2953, in esame in questi giorni, pare voler introdurre un numero prefissato di esperimenti di vendita, che dovrebbe essere stabilito nel numero di 3, cui si dovrebbe aggiungere un ultimo tentativo a prezzo libero. A seguito dell’infruttuosità di questi esperimenti la procedura si dovrebbe chiudere, sulla falsariga di quanto già prevede l’art. 532, 2° comma, c.p.c. Allo stato si tratta solo di ipotesi e quindi in questa sede non possiamo tenerne conto. Mi sia solo consentito sottolineare quanto un provvedimento di questo tipo potrebbe rivelarsi inopportuno, in quanto scollegato da qualsiasi valutazione del caso concreto che tenga conto sia delle attività effettivamente compiute nel corso della procedura per garantire la fruttuosità della vendita – e ci riferiamo soprattutto alla liberazione del bene e all’amministrazione giudiziaria dello stesso — sia della misura del possibile soddisfacimento delle ragioni dei creditori, nonostante lo svilimento del valore del bene.

10. – Dal complesso delle nuove norme sulla vendita immobiliare emerge altresì un rinnovato favor del legislatore per l’assegnazione del bene. Ora risulta chiaro, grazie al 1° comma dell’art. 589 c.p.c., che l’offerta del creditore deve corrispondere a “una somma non inferiore a quella prevista nell’articolo 506 ed al prezzo base stabilito per l’esperimento di vendita per cui è presentata”. Prima di questa modifica la dottrina e la giurisprudenza di legittimità ritenevano invece che l’assegnazione rimanesse sempre ancorata, anche nel caso di plurimi esperimenti di vendita con prezzo ribassato, ai parametri indicati nell’art. 506 c.p.c. e in particolare, per quanto qui rileva, al “valore” del bene(45). Sicché l’istituto non ha mai avuto ampia applicazione.

Ma grazie a questo intervento la situazione potrebbe cambiare: il creditore ha la possibilità di offrire una somma che diminuisce di pari passo con i ribassi stabiliti con il procedere dei tentativi di vendita.

Si tratta di una novità senza dubbio opportuna, anche in considerazione dell’attuale scarsa vivacità del mercato immobiliare. Ma essa assume ancora maggior rilievo, trasformandosi – verrebbe da dire – in uno “strumento di difesa” per il creditore, se si volge l’attenzione all’art. 164 bis disp. att. c.p.c.: piuttosto che incorrere nella chiusura per infruttuosità della procedura, può essere preferibile chiedere l’assegnazione del bene.

Uguale previsione non si riscontra per la liquidazione di beni mobili, ed anzi, ci si rammarica che le recenti riforme non abbiano finalmente chiarito l’ambito di applicazione dell’assegnazione in tale contesto: se essa possa essere domandata solo nelle ipotesi nelle quali è espressamente prevista (artt. 529 e 539, 2° comma c.p.c.), oppure se essa sia ammissibile in relazione a tutti i beni mobili(46).

Quanto all’istituto dell’assegnazione, si segnala inoltre che, nel momento in cui si scrive, è all’esame del Parlamento un provvedimento in recepimento della Direttiva europea 2014/17/UE del 4 febbraio 2014 in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali e recante modifica delle direttive 2008/48/CE e 2013/36/UE e del regolamento (UE) n. 1093/2010. Si tratta di una direttiva molto ampia, che non può per ovvi motivi essere esaminata funditus in questa sede.

Mi limito solo a sottolineare che ciò potrebbe avere effetti dirompenti, non solo per l’espropriazione di beni immobili, ma più in generale per il nostro ordinamento. Dalle cronache dei lavori parlamentari in corso, si apprende che l’intenzione del nostro legislatore è, in sostanza, quella di istituzionalizzare per i contratti di mutuo garantiti da ipoteca sull’immobile una sorta di patto marciano: vale a dire, un patto in seguito al quale “il creditore diventa proprietario della cosa ricevuta in garanzia, allorché il debitore non adempie”(47). Patto, cui dovrebbe corrispondere, quale “controgaranzia” per il debitore inadempiente la completa liberazione rispetto al debito assunto con il contratto di mutuo.

Sull’opportunità di siffatto intervento si possono sollevare numerose perplessità. Al riguardo, mi limito a segnalare che l’Europa in realtà non “ci chiede” tale passo. L’art. 28, § 4 della direttiva dispone infatti (solo) che: “Gli Stati membri non impediscono alle parti di un contratto di credito di convenire espressamente che la restituzione o il trasferimento della garanzia reale o dei proventi della vendita della garanzia reale è sufficiente a rimborsare il credito”; mentre nel § 5 si prevede che “se il prezzo ottenuto per il bene immobile influisce sull’importo dovuto dal consumatore, gli Stati membri predispongono procedure o misure intese a consentire di ottenere il miglior prezzo possibile per la vendita del bene immobile in garanzia(48). Sicché, se la scelta del nostro legislatore sarà quella di imporre, in particolare per caso il contratto di mutuo fondiario (così pare), quella sorta di patto marciano ex lege, cui facevamo riferimento poco sopra, si tratterà di una decisione autonoma della nostra Politica.

11. – Anche in punto di liquidazione dei beni mobili con la riforma del 2015 sono state introdotte novità di assoluto rilievo.

Ciò è in parte conseguenza della “rivoluzione” dell’istituto attuata con il d.l. 132/2014: mi riferisco all’introduzione del principio secondo il quale “l’incanto può essere disposto solo quando il giudice ritiene probabile che la vendita con tale modalità abbia luogo ad un prezzo superiore della metà rispetto al valore del bene determinato a norma dell’articolo 568” c.p.c.; per altra parte, dipende da scelte autonome del legislatore del 2015.

L’incipit dell’art. 532 c.p.c. prevede ora che il giudice “dispone” la vendita senza incanto o per tramite commissionario, e non più che tali modalità possono essere disposte, quali alternativa all’incanto. Ciò dissipa ogni dubbio riguardo all’ambito di applicazione del 2° comma dell’art. 503 c.p.c.: benché nel medesimo si faccia riferimento al valore del bene ai sensi dell’art. 568, che è norma applicabile solo nell’ambito della vendita immobiliare, alla luce delle ultime novità introdotte nel 2015, diviene palese che anche per quanto riguarda la vendita mobiliare si subordina l’incanto alla condizione ivi descritta(49). Di talché, in questo stesso senso va probabilmente letto anche il disposto dell’art. 534 bis c.p.c., riguardo alla vendita dei beni mobili registrati da parte del delegato, sebbene il testo dell’articolo preveda ancora che il compimento di tali operazioni possa avvenire “con incanto ovvero senza incanto”.

Di notevole rilievo sono anche le novità introdotte nel 2° comma dell’art. 532 c.p.c.: si prevede che il numero complessivo degli esperimenti di vendita non possa essere inferiore al numero di tre, come nella prassi di molti tribunali; si lascia al giudice la scelta riguardo alla misura dei ribassi e alle modalità di deposito della somma ricavata; e, inoltre, si stabilisce che l’incaricato della vendita abbia a disposizione un periodo di tempo compreso tra sei mesi e un anno per liquidare i beni. Alla scadenza deve restituire gli atti in cancelleria e, se si tratta del commissionario, deve altresì fornire “prova dell’attività specificamente svolta” in particolare per “reperire potenziali acquirenti” (art. 533, 2° comma c.p.c.).

Si segnala la novità introdotta nell’ultimo periodo del 2° comma, dove si prevede che se la vendita non ha avuto esito positivo, e non sono state proposte istanze per l’integrazione del pignoramento ai sensi dell’art. 540 bis c.p.c., il giudice dispone “la chiusura anticipata del processo esecutivo anche quando non sussistono i presupposti di cui all’art. 164 bis” disp. att. c.p.c.: in sostanza, quando sono già stati espletati gli esperimenti di vendita nel numero fissato al giudice con il provvedimento di autorizzazione è inutile proseguire. L’infruttuosità e l’antieconomicità della procedura, cui fa riferimento l’art. 164 bis disp. att., è già dimostrata nei fatti.

Si tratta senza dubbio di una norma utile per l’efficienza della procedura: ci si augura tuttavia che nella fissazione del numero degli esperimenti di vendita e della percentuale di ribasso dei medesimi si tenga conto della grave conseguenza, cui l’esaurimento del programma conduce in via “automatica”, senza ulteriore valutazione.

Vi è da domandarsi inoltre come questa nuova disposizione debba essere coordinata con l’art. 540 bis c.p.c., peraltro espressamente richiamato dalla stessa: in entrambe si tratta infatti dell’infruttuosità della vendita mobiliare. Ma nell’una si detta una disciplina differente rispetto a quella prevista nell’altra sia per quanto riguarda il numero di esperimenti di vendita, sia circa la sorte dell’espropriazione: nell’art. 532, 2° comma, c.p.c. si dispone la chiusura anticipata del processo esecutivo, mentre nell’art. 540 bis c.p.c. si fa invece riferimento all’estinzione dello stesso. E ciò, come è noto, comporta che contro il provvedimento di estinzione si debba proporre reclamo al collegio (art. 630, 3° comma, c.p.c.), mentre contro quello di chiusura anticipata – secondo l’indirizzo della giurisprudenza formatosi in relazione alle ipotesi di estinzione atipica, nonché secondo quanto si afferma a proposito dell’art. 164 bis disp. att. c.p.c., – si deve proporre opposizione agli atti esecutivi. Ma al di là di ciò, ci si chiede che senso abbia la convivenza di queste due differenti norme, chiamate a disciplinare un’ipotesi identica. Si può forse considerare l’art. 540 bis c.p.c. implicitamente abrogato nella parte in cui si pone in contrasto con il nuovo 2° comma dell’art. 532 c.p.c., in applicazione del principio lex posterior derogat priori; è certo però che la (apparente) vigenza di questo doppio regime crea notevole incertezza.

Va infine segnalato che, grazie alla modifica dell’art. 534 bis c.p.c., operata con il d.l. n. 83/2015, le vendite di beni mobili registrati dovranno ora essere sempre delegate all’istituto vendite giudiziarie o, in via subordinata, al professionista scelto dal giudice. Non pare invece applicabile anche a questa ipotesi la clausola derogatoria prevista nel 2° comma dell’art. 591 bis c.p.c., che consente al giudice di valutare se procedere direttamente alla vendita; sia perché questa modalità di vendita non è prevista nella disciplina dell’espropriazione mobiliare, sia perché appare chiaro che con la riforma si è voluto eliminare il potere discrezionale del giudice sul punto: ora egli “delega” mentre, prima della modifica, poteva delegare.

Al riguardo, va altresì rilevato che nel testo dell’art. 534 bis è rimasta la previsione secondo la quale la vendita delegata può avvenire “con incanto ovvero senza incanto”, ma è, a mio avviso, da ritenersi, in assenza di diverse indicazioni di sistema, che anche in tale contesto debba valere la regola generale introdotta nel 2014: la vendita con incanto potrà essere disposta solo se il giudice ritiene sussista la condizione indicata nel 2° comma dell’art. 503 c.p.c.

Quanto alle contestazioni sull’operato del delegato – ma anche del commissionario – l’art. 534 ter detta una disciplina in tutto analoga a quella prevista nell’art. 591 ter c.p.c. Sul punto valgono quindi le considerazioni già svolte in precedenza.

12. – Come sottolinea la Relazione, con il provvedimento del giugno 2015, si è operata “una significativa riduzione dei termini stabiliti per il compimento di adempimenti procedurali”. Al riguardo, innanzitutto si è disposto, modificando l’art. 497 c.p.c. che per tutte le procedure di espropriazione regolate dal codice di rito il pignoramento perde efficacia quando dal suo compimento sono trascorsi 45 giorni, e non più 90, senza che sia stata chiesta l’assegnazione o la vendita.

In secondo luogo, si sono dimidiati o quanto meno ridotti sostanzialmente di tutti i termini che riguardano la fase della vendita immobiliare: così è per quelli previsti nell’art. 567 c.p.c., riguardo al deposito della documentazione ai fini della vendita immobiliare; per la nomina dell’esperto stimatore, che ora va nominato entro 15 giorni e non più 30 dal deposito della documentazione di cui all’art. 567 c.p.c. (art. 569, 1° comma, c.p.c.); viene inoltre abbreviato a soli 90 giorni il lasso di tempo massimo che può intercorrere tra la data del provvedimento con cui il giudice fissa l’udienza per l’audizione delle parti e l’udienza stessa (art. 569, 1° comma, ultimo periodo, c.p.c.).

Vedremo se per effetto di tali modifiche sarà possibile risalire qualche posizione nella ormai famosa classifica di Doing business(50). Per ora è certo che al creditore si chiede una dose di solerzia certamente maggiore. Si spera, tuttavia, per l’efficienza della procedura, che anche gli altri protagonisti della procedura siano altrettanto solerti nell’adempiere ai loro compiti.

13. – Un altro istituto che è stato modificato, con interventi poco evidenti ma incisivi, dalla l. n. 132/2015 è quello del pignoramento presso terzi.

È superfluo soffermarsi qui sulle critiche e sui dubbi che erano stati avanzati a seguito dell’introduzione in quel sistema del principio secondo il quale, se il terzo non risponde per iscritto all’invito del creditore a rendere la dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c., né compare all’udienza all’uopo fissata, o comparendo tace, “il credito pignorato o il possesso del bene di appartenenza del debitore, nei termini indicati dal creditore, si considera non contestato ai fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione”(51).

Ora il legislatore interviene, innanzitutto, limitando l’applicazione di tale principio: si può considerare il credito o l’appartenenza del bene al debitore “non contestato”, solo “se l’allegazione del creditore consente l’identificazione del credito o dei beni di appartenenza del debitore in possesso del terzo”(52).

L’atto di pignoramento può dunque tuttora contenere, così come prevede l’art. 543, 2° comma, n. 3), c.p.c., “l’indicazione, almeno generica, delle cose o delle somme dovute”, e va quindi considerato ancora legittimo l’atto di pignoramento generico. Ma, se il terzo non rende la dichiarazione e ciò non consente l’identificazione del credito dell’esecutato (secondo i principi applicabili ai diritti eteroindividuati) o della cosa in possesso del medesimo, la questione non si può risolvere con la “scorciatoia” della non contestazione. Ci si è finalmente resi conto che ai fini dell’espropriazione è indispensabile riuscire a identificare esattamente ciò che si sottopone a pignoramento e ciò che si assegna, e che per tramite del principio di non contestazione, nella maggior parte dei casi non si è in grado di assicurare tale certezza(53).

In secondo luogo, quale corollario della specificazione introdotta nel 1° comma dell’art. 548 c.p.c., grazie alle modifiche operate con la l. n. 132/2015, la parentesi cognitiva di cui all’art. 549 c.p.c. recupera (almeno in parte) la sua funzione originaria: ora ci si può rivolgere al giudice dell’esecuzione non solo quando si vuole contestare la dichiarazione del terzo, ma anche quando “a seguito della mancata dichiarazione del terzo non è possibile l’esatta identificazione del credito o dei beni del debitore in possesso del medesimo”. Quando c’è incertezza riguardo all’oggetto del pignoramento occorre la cognitio del giudice.

14. – Rimangono infine da esaminare le “misure a sostegno del debitore”, come afferma la Relazione, la quale fa riferimento in particolare “al pignoramento delle pensioni e delle somme depositate in conto corrente”.

Nel maggio 2015 la Corte costituzionale(54) è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 2, del d. l. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214(55). In particolare la questione riguardava il comma 4 ter dell’art. 2 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 inserito da quella norma, a mente del quale “lo stipendio, la pensione, i compensi comunque corrisposti dalle pubbliche amministrazioni centrali e locali e dai loro enti, in via continuativa a prestatori d’opera e ogni altro tipo di emolumento a chiunque destinato, di importo superiore a mille euro” non possono essere erogati in contanti. Il tribunale rimettente aveva sollevato la questione di legittimità rilevando come nell’ipotesi, secondo l’orientamento della giurisprudenza(56), i limiti di pignorabilità stabiliti dall’art. 545 c.p.c, nella versione allora in vigore, venissero meno, con il confluire dei predetti emolumenti in un conto corrente bancario o postale(57). La Corte, pur concludendo per l’inammissibilità del ricorso, rilevava tuttavia come il legislatore non potesse “sottrarsi al compito di razionalizzare il vigente quadro normativo in coerenza con i precetti dell’art. 38, secondo comma, Cost.”. In sostanza, il problema era che, quando i ratei della pensione o dei trattamenti assimilati venivano accreditati su un conto corrente bancario o un libretto di risparmio, essi si confondevano con il resto delle somme ivi giacenti, con conseguente impignorabilità “di quella parte della prestazione previdenziale che vale ad assicurare al pensionato i mezzi adeguati alle esigenze di vita costituzionalmente garantite”. La stessa Corte in più occasioni aveva peraltro rilevato(58) come, pur essendo il divieto assoluto di pignoramento delle pensioni contrario ai precetti costituzionali, occorresse tuttavia permettere all’esecutato di godere di un minimum vitale, sottratto alla pretesa esecutiva.

Con il d.l. n. 83/2015 il legislatore interviene quindi sulla questione, modificando l’art. 545 c.p.c. e stabilendo nuovi limiti di pignorabilità per stipendi e pensioni; limiti, la cui violazione è rilevabile d’ufficio dal giudice (art. 545, ult. comma, c.p.c.)(59).

Innanzitutto, si è regolata espressamente l’ipotesi di pignoramento di somme “da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescenza”, ipotesi che fino a quel momento non era oggetto di una specifica disciplina positiva(60): il nuovo 7° comma dell’articolo in esame prevede ora che le suddette somme non possano essere pignorate per un ammontare “corrispondente alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentato della metà”; mentre la parte eccedente tale ammontare rimane pignorabile, in sostanza, negli stessi limiti nei quali è pignorabile lo stipendio, sia ai sensi del medesimo articolo (comma 3°, 4° e 5°) sia “dalle speciali disposizioni di legge”, tra le quali va ricordato soprattutto l’art. 72 ter d.p.r. n. 602/1973 nell’ambito della c.d. esecuzione esattoriale.

In secondo luogo, l’art. 545 c.p.c. si arricchisce di altri due commi, che disciplinano il pignoramento di stipendi e di pensioni (o indennità equivalenti) “nel caso di accredito su conto bancario o postale intestato al debitore”. La misura del pignoramento varia, in quest’ipotesi, secondo che esso riguardi somme già confluite sul conto prima del pignoramento oppure somme che vi confluiscono in costanza di espropriazione. Si specifica infatti che tali somme “possono essere pignorate, per l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento”, consentendo quindi al correntista esecutato di mantenere sul conto, a sua disposizione, un piccolo “tesoretto” dotato di impignorabilità assoluta.

Se, invece, “l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente”, le predette somme possono essere pignorate nei medesimi limiti in cui lo sarebbero presso il datore di lavoro o presso l’ente erogante, nonché nei limiti delle speciali disposizioni di legge.

Tutto ciò si riflette di necessità sul dovere di custodia del terzo, ente erogante o istituto di credito, terzo pignorato. In virtù di ciò è quindi stato modificato anche l’art. 546 c.p.c.: al 1° comma si è aggiunto un nuovo periodo nel quale si specifica che, con riferimento alle ipotesi dell’art. 545 c.p.c., gli obblighi del terzo pignorato non operano, quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pignoramento, per un importo pari al triplo dell’assegno sociale; quando l’accredito ha luogo alla data del pignoramento o successivamente, gli obblighi del terzo pignorato operano nei limiti previsti dall’articolo 545 e dalle speciali disposizioni di legge”.

La nuova disciplina, sebbene apprezzabile, quanto meno laddove tende a uniformare la misura del pignoramento di queste somme, indipendentemente dal fatto che si proceda presso il terzo datore di lavoro o l’ente erogante oppure presso l’istituto depositario delle somme, non è tuttavia priva di profili critici.

Il terzo, custode – e responsabile – di tali somme, può essere messo in grave difficoltà da queste disposizioni. Non può infatti sapere, ad esempio, se vi sono trattenute di stipendio direttamente operate presso il datore di lavoro; e così pure non è in grado di conoscere se sullo stipendio o sulla pensione gravi già presso il datore di lavoro un altro pignoramento. Non si prevede inoltre alcun avvertimento al terzo riguardo ai suddetti limiti di pignorabilità (e dunque di custodia): l’art. 543 c.p.c. non ha subito modifiche sotto questo profilo. Sicché possiamo immaginare che in futuro tali questioni genereranno numerose liti.

15. – Al di là di ciò che si evidenzia nella Relazione al d.l. n. 837205, non va peraltro trascurato che l’intento di proteggere il debitore traspare chiaramente anche dalla modifica attuata all’art. 480 c.p.c., nonché da quella relativa all’estensione del periodo di rateizzazione in caso di conversione del pignoramento, introdotte con quello stesso decreto.

Quanto al precetto, nel 2° comma dell’art. 480 si è aggiunto un periodo nel quale si prevede che esso “… deve altresì contenere l’avvertimento che il debitore può, con l’ausilio di un organismo di composizione della crisi o di un professionista nominato dal giudice, porre rimedio alla situazione di sovraindebitamento concludendo con i creditori un accordo di composizione della crisi o proponendo agli stessi un piano del consumatore”. Vista la scarsa fortuna che tali procedure hanno finora avuto, si è pensato di incentivarne l’utilizzo imponendo al creditore tale avvertimento(61).

La norma, pur chiara nel dettato, è peraltro fonte di dubbi e già sta creando disomogeneità applicative. Ci si domanda infatti se il precetto privo di tale indicazione si debba considerare nullo o comunque viziato, oppure se esso possa, ciononostante considerarsi valido, dato che questa prescrizione non è inclusa tra quelle per le quali l’art. 480 c.p.c. commina espressamente la nullità.

Al riguardo mi pare che mai potrà considerarsi viziato (o nullo) un precetto privo dell’avvertimento in esame, quando esso preluda l’avvio di una esecuzione in forma specifica, dato che la procedura, per la quale si vuole sollecitare l’interesse, mira alla sistemazione della situazione debitoria del soggetto avvertito, è evidente che l’avvertimento riguarda solo il debitore che sta per subire l’espropriazione. In secondo luogo, l’avvertimento è sostanzialmente inutile tutte le volte in cui il debitore sia, senza ombra di dubbio, un soggetto giuridico fallibile: mai potrebbe essere ammesso ad una di queste procedure.

Ciò detto, per comprendere se, entro i limiti ora delineati, il precetto privo dell’avviso de quo sia o non sia invalido, bisogna rivolgere l’attenzione alle disposizioni generali del codice di rito, e in particolare all’art. 156 c.p.c. laddove, benché nel 1° comma si disponga che “non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge”, nel 2° comma, si prevede altresì che la nullità “può tuttavia essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”.

La questione in esame si risolve, in sostanza, in modo opposto, secondo che si ritenga o non si ritenga che, a seguito della introduzione della prescrizione in esame, il precetto abbia assunto una nuova ulteriore funzione: quella di informare il debitore circa la possibilità di accedere a una delle procedure contemplate dalla l. n. 3/2012. Sul punto i primi arresti della giurisprudenza sono tra loro contrastanti(62). A mio avviso è ragionevole la tesi proposta recentemente in dottrina, secondo la quale la previsione in esame non ha mutato la funzione originaria del precetto, che quindi si dovrebbe considerare valido, ancorché irregolare, anche se privo dell’avvertimento in esame(63).

Ma anche se non si condividesse tale tesi, la conclusione sul piano pratico non potrebbe essere differente. Si consideri che il danno patito dal debitore sta nel non essersi potuto giovare ex l. n. 3/2012 dell’automatic stay dell’espropriazione iniziata o da iniziarsi. Se anche si volesse dare diverso rilievo alla mancanza di questo avvertimento si dovrebbe in ogni caso concludere che incombe sul debitore, in sede di opposizione agli atti, fornire prova che, se fosse stato tempestivamente avvisato di questa ulteriore possibilità, avrebbe potuto accedere alla procedura per sovraindebitamento prima dell’inizio dell’azione esecutiva, così come ci insegna la giurisprudenza di legittimità formatosi a proposito del rilievo delle nullità processuali per l’esecutato(64).

16. – Per quanto riguarda infine la conversione del pignoramento, il d.l. n. 83/2015 ha apportato due novità di rilievo, che se, da un lato, aumentano le chance del debitore, dall’altro lato, allungano tuttavia i tempi della procedura. In primo luogo, ha infatti esteso l’ambito di applicazione della rateizzazione anche ai beni mobili, come peraltro già avveniva nella prassi; in secondo luogo, ne ha ampliato il periodo massimo di durata, portandolo dagli originari 18 agli attuali 36 mesi “se ricorrono giustificati motivi” e specificando che sulla somma, determinata a norma del terzo comma, gravano gli “interessi scalari al tasso convenzionale pattuito ovvero, in difetto, al tasso legale”(65). Quale corollario di tale estensione temporale si prevede inoltre che ogni sei mesi il giudice provveda, “a norma dell’articolo 510, al pagamento al creditore pignorante o alla distribuzione tra i creditori delle somme versate dal debitore”.